E’ questa la domanda che ci viene continuamente rivolta fi n dai nostri primi minuti in terra albanese: ce larivolgono “l’autista” inviato dalle monache in aeroporto, e poi loro stesse, che ci accolgono con un boato gioioso; ce la rivolgono poi anche gli altri volti che compongono il nostro primo ideale album di ricordi. «Vi piace qui?». Ed è a questa domanda che, giorno dopo giorno, impariamo a rispondere, con un sì dato all’accoglienza e all’attesa di questa primizia di popolo albanese, che incontriamo in questi nostri primi tre giorni da futuri missionari.
Per me, alle prese con i miei studi teresiani al CITeS di Avila, la telefonata del padre Generale è stata come un fulmine a ciel sereno: mi parla del suo desiderio di avviare in quella martoriata terra una prima presenza (maschile) carmelitana: auspicata dalle monache, certo; richiesta dal Vescovo di Sapa; invocata dal bisogno che la Chiesa, in questa terra, ha di una presenza che sostenga e favorisca la promozione spirituale di tanti uomini e donne, giovani e anziani, che dopo una feroce dittatura comunista stanno rientrando nella “fede dei loro padri”.
Per questa avventura padre Saverio ha pensato anche a me! La lunga conversazione spiana la strada alla mia disponibilità, manifestatagli nel giro di qualche giorno: la coscienza di quello che questo mio sì significava per il Commissariato ha reso la risposta più difficile, ma la certezza che attraverso questo invito il Signore mi faceva un dono, una nuova ed inattesa esperienza missionaria, ha sospinto la mia volontà.
E come se non bastasse, neanche il tempo di abituarsi all’idea e già, sono invitato, insieme agli altri due confratelli, di altre due province italiane, padre Adolfo e padre Paolo Maria, ad una prima visita in Albania, per una prima conoscenza dei luoghi e dei volti che costituiranno la nostra prossima missione.
E così, il giorno di Pasqua mi trovo in viaggio verso Roma, dove giungo nel pomeriggio per incontrare personalmente il padre Generale; la mattina di “Pasquetta” mi vede già a Fiumicino dove, con padre Gabriele Morra, attuale Commissario del Centro-Italia, viaggio verso la terra delle aquile. Il volo insieme, è l’occasione per farmi raccontare qualcosa di questa terra e di questa chiesa che ci attende: lui, con alcuni frati toscani, ha già avuto dei primi contatti “missionari”, da un anno, per aiutare materialmente alcuni villaggi sperduti nelle alpi albanesi.
L’aeroporto che ci accoglie manifesta tutto il desiderio di questa nazione di lasciarsi alle spalle la povertà che ha ereditato dal regime comunista; ma appena cominciato il viaggio verso il villaggio di Nënshat, dove si trova il monastero delle carmelitane scalze, l’ambiente comincia a rivelarsi in tutta la loro povertà ed arretratezza. Le “strade” (le buche!), le auto, le case, la gente per strada, le campagne, i negozi, gli ambulanti…tutto parla di una vita che noi italiani ormai immaginiamo per averne sentito parlare dai nonni, o per aver visto qualche film ambientato nel dopo-guerra.
Appena usciti dalla dittatura comunista solo nel 1991, i volti di tanti albanesi sono divenuti famosi perché stipati in maniera inumana su quei barconi che in pochi giorni affollarono le coste della Puglia. Quelle immagini fanno parte della memoria del nostro popolo che, dopo decenni di distanza, scopriva a pochi chilometri dalle sue coste adriatiche un altro popolo, schiacciato dalla miseria e, quindi, in fuga verso qualunque nuova condizione che permettesse di tornare a vivere e sperare. In pochi giorni, mi è stato dato di cogliere da dove fuggivano quegli uomini e quelle donne, di allora e di oggi: e dire che già sono passati vent’anni e forse, le cose saranno un po’ migliorate.
Dopo quasi due ore di viaggio in macchina, cominciamo a salire dalla pianura verso la collina dove si trovano le consorelle. Il monastero è stato inaugurato solo nel 2003, fondato da alcune monache provenienti dalla Croazia. Già il portone di ingresso, addobbato a festa, esprime la loro accoglienza; ma è quando ci rispondono al citofono che esplode un inatteso ma gradito urlo: Benvenuti! Appena il tempo di riprenderci dalla sorpresa, entriamo e le monache ci attendono alla porta della clausura da dove stavano gridando la loro gioia.
È il tempo dei primi saluti ed abbracci, delle prime presentazioni (per me, almeno, che sono l’unico sconosciuto del gruppo…): la barriera linguistica viene superata, senza problemi, grazie ad una delle giovani monache, che parla benissimo italiano e che ci fa da traduttrice simultanea per tre giorni, durante i momenti di ricreazione e le celebrazioni eucaristiche. Il primo pomeriggio lo passiamo in loro compagnia e cominciando a conoscerci anche fra noi frati, per raccontarci il “come” siamo stati coinvolti in questa missione e il “come” abbiamo dato la nostra disponibilità.
Nel pomeriggio, per me, prima “pastorale giovanile”. Dallo spiazzale delle monache stavo ammirando lo stupendo panorama, impreziosito dalla bella giornata: davanti la vasta pianura della Zadrima, popolata di piccoli villaggi qua e là, alle mie spalle le prime montagne che annunciano i Balcani. Da uno di quei villaggi, giungono, dopo una oretta almeno di strada a piedi e in salita, tre ragazze, per salutare le monache e visitare la chiesa, che resta sempre aperta, dedicata a San Michele Arcangelo. Mentre si accingono a ridiscendere verso la loro casa, supero il mio silenzio imposto dall’ignoranza della lingua e oso un italianissimo “ciao”, immediatamente corrisposto, almeno dalla più grande delle tre, che scopro, sorelle.
È stato un dono poter parlare un poco con lei, che mi racconta dei suoi studi a Shkodër presso le suore, della sua famiglia e della situazione di povertà nella quale vivono. Ed ancora una volta, anche le mi chiede: «A ju pëlqen këtu?». Questa volta è una domanda triste, non si aspetta un mio sì. «È brutto vivere qui!», aggiunge subito dopo, «per la povertà: non c’è lavoro, non ci sono possibilità, tutti vogliono andare via, cercare lavoro, magari in Italia… Come mai volete venire qui?». La tristezza è passata anche a me, perché il mio tentativo di articolare una risposta aff ermativa già non poteva essere solo una frase di circostanza. Ricordo che gli ho detto, senza neanche rendermene conto: «lo vivremo insieme!». Già, proprio così: nel giro di qualche mese quella tristezza, quella povertà, quelle attese stroncate da una situazione sociale ed economica disastrosa, diventeranno anche le mie, le nostre, chiamati a viverle insieme a questo popolo, a questa “primizia” del mondo giovanile albanese che mi è stato dato di conoscere.
Ci salutiamo, dandoci appuntamento al prossimo ottobre, e le giovani cominciano a scendere verso il loro “triste” villaggio («a piedi?», gli chiedo. Sì, perché qui i piedi sono l’unica risorsa di mobilità per tanta gente). Intanto, nel tardo pomeriggio giunge anche padre Paolo Maria; ora la comunità missionaria è al completo. E fu sera e fu mattina, primo giorno.
L’indomani, in mattinata, messa con le monache e una cinquantina di persone che (a piedi, come dicevamo) hanno scalato la collina per venire a messa in occasione di uno dei “martedì di sant’Antonio”, frequentatissimi da queste parti. Dopo colazione, partiamo per Vau i Dejës, sede vescovile, dove ci attende Mons. Avgustini: primo incontro, di presentazione, conoscenza, manifestazione del suo vivo desiderio di costruire vicino alle monache un piccolo centro di spiritualità, che vorrebbe affidare alle nostre cure.
Rientrando, pranziamo dalle monache in compagnia di don Antonio, un sacerdote milanese che da anni porta avanti la missione nelle zone montuose e più isolate: ci racconta la sua esperienza e del bisogno di un luogo per l’accoglienza e la formazione spirituale, per lui e per la sua gente. Nel pomeriggio: presso il monastero, secondo incontro con il Vescovo, per mostrarci il progetto di massima elaborato finora e il luogo e le caratteristiche della nuova struttura. E fu sera e fu mattina, secondo giorno.
Il mercoledì mattina siamo in viaggio verso Shkodër, la città più vicina a noi, a nord dell’Albania, dove incontriamo alcuni religiosi vincenziani che da anni sono presenti in Albania, per la cura di alcune parrocchie: ci raccontano i loro inizi, ci parlano della chiesa albanese e del bisogno di questa nostra prossima presenza, che dovrebbe offrire luoghi e occasioni per la formazione spirituale, non solo a preti e religiosi/e ma anche ai laici e, soprattutto, ai giovani.
Di questi giovani ci ha poi parlato nel pomeriggio anche il parroco di Nënshat, un cappuccino pugliese in missione da diversi anni; alla domanda sul possibile nostro contributo risponde indicandoci quella generazione che sta vivendo in pieno la crisi albanese: i giovani, che vedono nella televisione italiana il mondo che gli è negato, che sognano di venire da noi, per studiare e lavorare; alcuni ci riescono, ma a molti anche questa possibilità è preclusa. Giovani senza lavoro, senza futuro, senza possibilità: «a questi giovani dovrete parlare…», ci dice il parroco. A me, che avevo già ascoltato questo sconforto nella mia prima “pastorale giovanile”, un paio di pomeriggi prima, quelle parole sono sembrate una conferma. Conferma alla mia risposta: «lo vivremo insieme!».
La giornata si conclude con la cena in monastero e una vivace e festosa ricreazione con le monache, che per noi hanno preparato una scenetta in costumi tipici… uno spasso! E fu sera e fu mattina, terzo giorno.
Intanto, giunti all’ultimo giorno, riusciamo a raccogliere qualche idea, prima di ripartire, in un ultimo incontro fra noi prossimi missionari, preventivando il nostro arrivo in Albania per il prossimo ottobre, consci che il primo grande sforzo sarà l’apprendimento
della lingua. In mattinata salutiamo le monache, che da giorni non nascondono la loro gioia per veder realizzato un sogno: l’arrivo dei frati in Albania.
Oggetto di tante preghiere in questi dieci anni, oggetto di speranza dopo la recente visita del padre Generale; frutto, certamente, del sacrificio di tanti cristiani martirizzati nelle prigioni del regime, in anni e luoghi a noi vicinissimi. È al loro sangue che le monache, come il Vescovo, attribuiscono la nostra presenza: e la loro certezza ci riempie di nuova e più viva responsabilità, dinanzi a tanta testimonianza cristiana.
E forse, un altro frutto di quel sacrificio, e comunque un segno della benedizione di Dio per questa missione, pare potersi rintracciare anche nei primi germogli vocazionali di questo Carmelo albanese: alle tre vocazioni delle monache si aggiungono altri due giovani, di cui uno già in noviziato in Provincia Ligure e uno prossimo postulante nel Commissariato di Centro-Italia. Quest’ultimo, una preziosa presenza e compagnia in questi primi giorni: ci ha condotto in giro, ci ha aiutati a capire cosa è l’Albania e cosa si aspettano da noi quegli albanesi che in qualche modo ci saranno affidati.
Anche lui, più di una volta, ci ha ripetutola stessa domanda: «A ju pëlqen këtu?». Forse conscio, anche lui, di non potere offrire nulla della vita “bella” che ostenta la nostra televisione, forse timoroso che questi primi missionari potessero smarrirsi dinanzi alla realtà dura che questo popolo affronta quotidianamente.
Mentre risalgo sull’aereo che mi porta a Roma, e poi ancora ad Avila, la ripetuta domanda di questi giorni comincia a trovare risposta, anche se ho avuto solo il tempo di assaggiare i drammi di questa gente, le loro povertà e le tristi condizioni sociali ed economiche, ed intuisco che la realtà mi sorprenderà purtroppo ancora di più. Eppure, no: «non è brutto vivere qui!» e fra qualche mese verremo anche noi, anche io, per vivere e portare insieme il peso di queste “bruttezze”, di questa povertà, di questo popolo. Quella triste affermazione dal primo pomeriggio mi accompagnava da giorni cercando una smentita, cercando qualcuno con cui condividere le bruttezze e le bellezze di questa loro storia. Dopo questi primi giorni, il sì, come dicevo, cominciava a sgorgare, con chiarezza: sì, ci è piaciuta l’Albania, i suoi panorami, i volti che abbiamo incontrato; ci è piaciuta l’attesa perla nostra presenza; ci è piaciuto pensarci in mezzo a loro, per “vivere insieme” i loro drammi e per imparare con loro a sperare, a pregare, a sorridere e, comunque, a ringraziare.
Dunque: «a ju pëlqen këtu?». Infine, la
risposta attesa affiora nel cuore: «Po!» (Sì!).
Padre Mariano Tarantino
Dal 21 al 26 giugno scorso mi sono recato in Albania per visitare le nostre monache di Nenshat, per un colloquio con il Vescovo di Sape e per portare alcuni medicinali. Con l’occasione sono potuto salire sulle montagne, verso Duschaj, dove anche quest’estate sarà presente un nutrito gruppo di giovani, studenti e professionisti, che presteranno il loro prezioso servizio a molti villaggi, per lo spazio di un mese, accompagnati dal P. Angelo Campana e con la presenza ad agosto del P. Sandro Pantoli.
E’ difficile trasmettervi la gratitudine e l’ospitalità delle persone incontrate… ma sappiate che ciascuno di voi è presente nelle loro preghiere; perchè l’amicizia che è nata grazie ad alcuni si è ormai estesa anche a tutti coloro che non sono mai andati in Albania o non potranno mai andare. Le famiglie, i giovani, gli anziani, i
religiosi che sono lì sanno che tutto il Commissariato è presente e desidera che si accresca la fede e la spiritualità, come anche la promozione umana di ogni creatura che incontriamo.
Il loro grazie va a tutti coloro che hanno contribuito in vario modo! In questo viaggio ho potuto portare molte medicine – alcuni farmaci di una certa importanza – che sono state raccolte all’eremo di Montevirginio; alcune provenienti da Tolentino grazie all’interessamento delle nostre monache. Poi anche vestiti di varia provienienza, che servivano soprattutto a nascondere l’ingente quantità di farmaci. E poi offerte, molte piccole offerte, gocce che riunite insieme hanno alleviato la povertà di molte famiglie.
A partire dal 19 luglio partirà l’esperienza estiva! Durerà fino al 20 agosto e si avvicenderanno molte persone. Grazie al lavoro del gruppo di Pisa, con P. Angelo, ogni mercoledì sono stati realizzati incontri di formazione alla missione e di lavoro per l’autofinanziamento. Il Ducato partirà pieno straripante verso le montagne! Anche a Montevirginio i giovani dell’oratorio hanno realizzato alcune attività per raccogliere il possibile, insieme alla preziosa collaborazione di alcune farmaciste che hanno raccolto tante medicine utili.
Amici e amiche grazie! a mio nome, ma soprattutto dai nostri
fratelli e sorelle albanesi!!!
Fra Gabriele